Molto spesso mi capita di ricevere telefonate da mamme e papà che richiedono informazioni per un “percorso psicomotorio per i propri figli”.
È in questo momento che comincia il mio interrogatorio:
- Chi vi ha consigliato di intraprenderlo?
- Per quali ragioni?
- Quanti anni ha il bambino?
- È già stato seguito da altri colleghi anche di altre discipline (logopedista, psicologi, ecc)
Ed è alla fine di questo interrogatorio che spesso mi è capitato di dover indirizzare i genitori ad altri professionisti, perché il percorso che ricercavano non era possibile o necessario che lo intraprendessero con me.
Ma facciamo un salto indietro.
La psicocomotricità nasce nel 1961, in Francia, riconosciuta con un diploma, la figura viene inserita nelle ‘scuole speciali’.
Tra gli anni 60 e gli 80 la psicomotricità mette in discussione la convinzione di poter modificare la psiche attraverso dei semplici esercizi per privilegiare ciò che si gioca tra il bambino e l’adulto.
In Italia il termine psicomotricità arriva negli anni ‘60 per designare un campo di intervento rivolto principalmente alla crescita e all’apprendimento del bambino. Con la psicomotricità si inaugura una nuova attenzione alla crescita e allo sviluppo del bambino all’insegna del corpo vissuto, è una enfatizzazione educativa dell’empatia materna, del dialogo corporeo pre-verbale, si definisce per la non essere né direttività né esposta al giudizio; ci si concentra su ciò che il bambino sa fare piuttosto che su ciò in cui è carente.
La psicomotricità necessita una formazione precisa dell’adulto ed esige una messa in discussione dei modelli educativi.

Psicomotricità
Chi può definirsi psicomotricista?
Tutti coloro che hanno conseguito: una laurea di 1° livello in Scienze della formazione, in Scienze psicologiche, in Scienze motorie o in Terapia della Neuro e Psicomotricità dell’Età Evolutiva (in considerazione del DM 10 marzo 1997 possono essere ammessi anche senza laurea gli insegnanti e gli educatori che hanno realizzato la loro formazione entro l’anno scolastico 2001-2002 e che hanno
esercitato continuativamente la propria attività lavorativa in ambito educativo) e che successivamente hanno frequentato o una scuola privata biennale o triennale in psicomotricità o un master universitario in psicomotricità educativa e preventiva. E che alla fine del percorso di studi abbiano sostenuto un esame di accesso ad un elenco professionale.
Quando mi rivolgo ad uno psicomotricista e chi può indirizzarmi?
Solitamente per difficoltà di tipo relazionale o comportamentale di tipo sfumato (leggera timidezza o impulsività o ipercinesia), le insegnanti di scuola o i pediatri consigliano un percorso di tipo educativo-preventivo alle famiglie, molto spesso in piccolo gruppo. In sostanza quando non si sospetta esserci nessun tipo di difficoltà che potrebbe evolvere in patologia.

Area Neuropsicomotoria – Fisicalmente
E la neuropsicomotricità e il terapista della neuro e psicomotricità o (T.N.P.E.E.) quando nascono?
Fino al 1997 gli psicomotricisti potevano lavorare anche nei contesti sanitari, ma in questo anno, con il D.M. 17 gennaio 1977 n. 56 del ministero della salute, vengono individuati tra le figure delle professioni sanitarie della riabilitazione anche i T.N.P.E.E. assieme a noi sono state normate anche tutte le altre figure delle professioni sanitarie (logopedisti, fisioterapisti, ecc). Con questo decreto si
sancisce che solo chi è in possesso del diploma di laurea triennale è riconoscibile come professionista che può eseguire percorsi di tipo riabilitativo.
Di cosa si occupa il T.N.P.E.E. e chi può indirizzarmi?
Il T.N.P.E.E. si occupa di prevenzione, terapia e ri-abilitazione in ambito sanitario. Solitamente ad indirizzare una famiglia verso una presa in carico da parte di un T.N.P.E.E. possono essere: pediatri, neuropsichiatri infantili, psicologi o psicoterapeuti, logopedisti o altri colleghi che reputino importante effettuare una presa in carico globale del loro paziente.
Inizialmente il T.N.P.E.E. effettua una valutazione neuro-psicomotoria che può essere composta da:
- osservazioni dirette in diversi contesti di vita del bambino,
- somministrazione di test standardizzati per valutare diverse aree di sviluppo (motorie, apprendimenti, prassiche, funzioni esecutive, ecc)
successivamente si valuterà e proporrà alla famiglia, con il rilascio di una relazione, il percorso di presa in carico più idoneo per il bambino valutato.
Riassumendo…
Il TNPEE è una figura professionale che svolge attività di abilitazione, di riabilitazione e di prevenzione nei confronti delle disabilità dell’età evolutiva (fascia di età 0 – 18 anni). La cornice teorica all’interno della quale opera il TNPEE è rappresentata dal Modello bio-psicosociale della disabilità suggerito dall’Organizzazione Mondiale della Sanità (OMS).
I riferimenti operativi per l’individuazione degli obiettivi dell’intervento del TNPEE sono forniti dalla Classificazione Internazionale del Funzionamento, delle Disabilità e della Salute – Versione Bambini ed Adolescenti (ICF-CY), elaborata dall’OMS. L’area di intervento del TNPEE è, quindi, rappresentata dalle Disabilità dello sviluppo, intese come quelle situazioni in cui in conseguenza di una malattia, di un disturbo o di una menomazione, comunque determinata, il soggetto presenta difficoltà nell’attualizzazione delle abilità necessarie alle Attività e alla Partecipazione e, più in generale, alla realizzazione del Progetto di Crescita.
Attua interventi terapeutici-riabilitativi nelle menomazioni per favorire i processi di riorganizzazione funzionale.
Svolge attività terapeutica per le disabilità neuropsicomotorie, psicomotorie e neuropsicologiche utilizzando tecniche specifiche per fasce d’età e per singoli stadi di sviluppo.
Adatta gli interventi alle particolari caratteristiche dei pazienti con quadri clinici multiformi che si modificano nel tempo in relazione alle funzioni emergenti.
Interviene sull’emergenza di abilità, favorendo l’emergere delle funzioni, al fine di garantire le Attività e la Partecipazione del soggetto, compatibilmente all’età e al livello di sviluppo.
In ambito preventivo interviene nella duplice prospettiva:
(a) di “prevenire” l’attualizzazione di percorsi di sviluppo atipici nelle situazioni di rischio, sia biologico che sociale;
(b) di “prevenire” processi di esclusione del soggetto diversamente abile, favorendo la generalizzazione delle competenze apprese nel setting terapeutico agli abituali contesti di vita.